Intervista a Magda Chiarelli

Magda Chiarelli è un’artista nata a Milano, ma cresciuta in Emilia-Romagna, dove ha avuto la possibilità di avvicinarsi alla pittura sin da bambina. In giovanissima età ha iniziato a frequentare diverse botteghe dove ha imparato e con il tempo migliorato la sua tecnica espressiva. Dal punto di vista accademico, i suoi studi si sono sviluppati all’interno dell’Accademia di Belle Arti di Brera e in scuole di teatro. Le due differenti strade le hanno permesso di poter fondere arte e teatro, facendola avvicinare al mondo della performance e della visual Art. 
In occasione dell’esposizione della Collezione Permanente 2023 visitabile fino a giugno 2023, abbiamo avuto l’opportunità di intervistare l’artista, la quale ha deciso di condividere con noi alcune curiosità sulla sua vita artistica e su alcune delle sue opere d’arte, raccontandoci i messaggi che con esse vuole trasmettere al pubblico. 

Quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a fare arte?

Posso affermare con certezza di non ricordare un momento in cui io non abbia dipinto, disegnato o reinterpretato la realtà a modo mio. Potrei rigirare la domanda in questo modo: “Perchè vedi questa cosa verde?”, perché i miei occhi la vedono verde, è il mio modo di vedere il colore, possiamo decidere di chiamarlo “rosso” ma io continuerò a vederlo verde. Non è un discorso razionale, come ad esempio quando qualcuno accende un interruttore o vede che gli è arrivata una chiamata, ma anzi è il proprio modo di interpretare la realtà e sarei persa senza di esso, anzi paradossalmente molte volte capisco prima ciò che succede a livello artistico che a livello razionale, cioè nei miei lavori vedo già che cosa poi succede a livello pratico e questo mi piace molto in quanto dimostra il fatto che la mia realtà artistica e la mia vita siano inscindibili, è proprio il mio modo di vedere e interpretare la realtà.

Quando è entrata nel mondo dell’arte?

È un po’ come se io ci fossi sempre stata nel mondo dell’arte, non essendoci un periodo in cui l’arte fosse staccata da me. Io ci ho sempre lavorato dentro, a livello di passione o a livello più professionale. Sono stata anche molto fortunata avendo in famiglia degli studiosi d’arte, infatti fin da piccolissima sono stata portata in vari musei e luoghi in cui si potesse dipingere e creare, inoltre mi hanno insegnato ad usare i colori ad olio a 4 anni e, sempre alla stessa età, mi hanno regalato il primo cavalletto, i primi colori e i primi pennelli, quindi il mondo dell’arte per me è sempre stato presente. Una cosa che mi piace raccontare è che quando si chiede a qualcuno “qual è il profumo della tua infanzia? Che cosa ti ricordi con più gioia?”, la mia risposta è “l’odore dell’acquaragia”, una risposta un po’ particolare rispetto al classico profumo dei biscotti della nonna appena sfornati; io  sento proprio i profumi dei colori, dell’acquaragia e sono felice in quanto si tratta del mio mondo, quasi ho paura a toccare i colori e i fogli per non rovinarli, solo toccarli per me è gioia pura. Quindi ci sono sempre stata all’interno del mondo dell’arte, poi ovviamente avendo studiato letteratura italiana e successivamente essendomi laureata a Brera, c’è stato anche proprio un percorso professionale in quanto ho seguito atelier di pittori o di incisori, ho studiato teatro per approfondire il discorso delle performance, però è stato proprio un percorso, non c’è stato un momento preciso in cui sono entrata nel mondo dell’arte.

Dove ricerca l’ispirazione per creare le sue opere?

Ovviamente è la realtà che mi parla, essendo il mio modo di vederla, io creo in base a ciò che mi giunge dall’esterno, è come se fosse una reinterpretazione di ciò che accade, quindi c’è qualcosa che mi da uno spunto, da quello che succede, da quello che sento, a qualcuno che mi dice “questo è interessante” o se magari vado a vedere una mostra e vedo un medium usato in un modo diverso, ma può essere anche il fatto di fare un giro in un semplicissimo supermercato e vedi un riflesso e dici “questo potrei usarlo in questo modo”, si può mettere assieme qualcosa che potrebbe essere un gioco per bambini come la porporina, con un discorso di prospettiva, di approfondimento e di sfaccettature del colore che hai visto in una mostra, infatti questa è una delle ultime cose che mi sono capitate a cui tenterò di sperimentare a breve. Il fatto di trovare l’unione tra il cercare un regalo per i figli di un mio amico con una mostra che avevo appena visto, quindi cercare di mettere insieme una serie di cose che ti stanno intorno. Quello che intendo non è sedersi a tavolino e dire “adesso lavoro su questo”, può succedere perchè può capitare l’occasione che qualcuno ti dica “potremmo fare una mostra su questo tema”, però anche lì inizi a pensare al tema e vai in giro finché non trovi qualcosa che ti colpisce, qualcosa per cui la mia mente inizia a fare dei salti e inizia a pensare a come potrebbe essere. Però le idee spesso mi arrivano proprio per giustapposizione, saltando un po’ di palo in frasca, senza un percorso lineare, lasciarsi la possibilità di saltare dove ti può portare la creatività. 

C’è un’opera che ritiene più importante per lei? Perchè?

In realtà non ci sono lavori che ritengo più o meno importanti o fondamentali, è un po come scegliere a quale figlio vuoi più bene, io non ho figli ma è come se ogni lavoro fosse un pezzo di me, soprattutto quelli ben riusciti, essendo il mio modo di interpretare la realtà non posso staccare un pezzo di me o un pezzo di quello che ho vissuto. Quello che si può dire è che sono particolarmente affezionata alle “pietre miliari” cioè il primo oggetto che ho dipinto, il primo murales, la prima finestra, la prima volta che ho fatto qualche cosa che mi facesse fare un salto in avanti. Ci sono lavori che mi parlano più di altri, che segnano dei momenti fondamentali della mia vita o che ritengo più importanti da condividere, altri più personali, però scegliere è impossibile in quanto fa tutto parte di un percorso.  

Considerando la sua carriera artistica, ha sempre mantenuto uno stile artistico lineare oppure ha avuto variazioni? A cosa sono state dovute?

Più che variazioni vi è stato un percorso ed un’evoluzione in esso; ho sempre lavorato sull’astrazione, sulle infinite sfumature del colore e sul fatto che l’arte possa portare altrove, perchè nella mia testa ogni cosa non è solo se stessa ma può essere il mondo dell’infinito. Qualsiasi cosa e persona viene normalmente etichettata, ma per me tutto può essere sia questo che quello. Categorizzare è molto limitante e non permette né alle cose né alle persone di sorprenderci. Quindi la cosa fondamentale per me è stata sempre lavorare sull’astratto, sul non definito, su quello che ci dimostra che il mondo è fluido e i miei lavori cercano di dimostrare questa fluidità. Ho realizzato dipinti, performance, installazione, oggetti , ma il filo conduttore di tutto è il fatto che il mondo non sia etichettabile o definibile, ma anzi sia una realtà mutevole e polisemantica sempre in grado di stupirci e di darci qualcosa di inaspettato se noi non ci limitiamo. È un percorso, una ricerca a 360 gradi che a volte può essere sonora, pittorica, tattile, un continuo lasciarsi stupire. 

Che cosa si aspetta dal suo lavoro artistico? 

A me piacerebbe riuscire a vivere solo del mio lavoro artistico, perché questo mi permetterebbe di non essere distratta da altro ed essere completamente immersa nel mio mondo e riuscire a svolgere la mia vita e raggiungere più persone possibili. Credo che la possibilità di vedere il mondo fluido e che l’arte sia uno scarto dalla realtà, che mostra qualcosa di differente, penso sia un arricchimento per tutto. il fatto di avere un qualcuno che a livello artistico ti permetta di andare dall’altra parte e vedere qualcosa di diverso, penso sia qualcosa che valga la pena avere e mi piacerebbe molto che il mio lavoro artistico permettesse a me e ad altri di fare questo salto nella possibilità infinita, in tutti i mondi del possibile.

Che tipo di ricerca l’ha portato a fondere fotografia e opere d’arte?

La fusione delle opere pittoriche e delle fotografie è nata dal fatto di non vedere la realtà in un solo modo. Esistevano già delle fotografie dipinte, ma farlo è sempre un qualcosa di definito, perché si ha una realtà fisica molto presente sia fotografica che pittorica, mentre nel concetto della fusione la realtà diventa fluida, ovvero la matericità della pittura perde concretezza mentre la definizione della fotografia perde di realtà. quindi vi è un fondersi, un passare dolcemente da una realtà all’altra, dove ogni cosa diventa tutto il mondo del possibile, perché è uno scambio continuo e variando il punto di vista non si comprende più che cosa si stia guardando. 

Perché ha deciso di chiamare la sua serie ‘Big Bookmarks’?

È un gioco legato al concetto dei diversi punti di vista. realizzo murales e segnalibri, quindi passo nei miei lavori a dimensioni totalmente diverse. ad un certo punto, avendo fotografato i lavori 2x1m e dovendoli mettere insieme per fare una locandina, mi sono resa conto che vedendoli sul cellulare avevano la dimensione dei segnalibri, nonostante fossero alti due metri. dunque, il chiamarli segnalibri è un gioco che dice e dimostra come tutto sia relativo. non esiste una risposta certa, perchè se li guardo sul pc non capisco che dimensione abbiano, quindi il mio segnalibro può essere grande due metri o piccolo qualche centimetro. 

Che emozione le provoca la vista dei ‘Dialogue Dots’ ? 

I dialogue dots significano tanto per me. Quando ho iniziato a fare i miei lavori “a macchiette di colore sfumate” in cui la prospettiva rinascimentale si fonde con lo sfumato di Rothko e la pittura automatica di Pollock si fonde con le suggestioni di monet, ho compreso che l’arte ci permette di vedere la realtà come se non fosse semplicemente un foglio piatto dritto o un muro lineare o un angolo. I dialogue dots all’inizio erano parte di trittici: una fotografia, un dipinto e una fusione tra fotografia e dipinto; per me quindi sono legati al concetto di dialogo tra varie realtà in cui alcune possono essere più definite, altre meno, ma c’è sempre qualcosa che stupisce. Io adoro farmi portare altrove dal colore, dalla sua suggestione e dalle sue infinite sfumature, tanto che grazie ad esso riesco a vedere una realtà che non è semplicemente definita come pare a prima vista. Spostandosi davanti a uno di questi lavori il muro su cui sono appesi cambia, si sposta, non è più qualcosa di liscio e piatto, ma apre dei mondi e delle suggestioni che portano altrove. I Dialogue Dots per me rappresentano la possibilità di sognare, di mettermi davanti a un mondo di colore permettendogli di portarmi altrove.

Perché ha scelto la montagna come protagonista delle sue opere? 

Ho scelto la montagna perché mi trovavo in quel luogo; stavo facendo un viaggio in Canada che ho desiderato molto fare perché adoro gli alberi e la forza della natura. 
Mentre ero lì mi sono resa conto che questo bellissimo viaggio – non solo fisico – mi stava portando nell’anima del Canada, suggerendomi che la realtà non fosse definita. 
Scattando foto della mia vacanza, reinterpretando artisticamente la realtà attraverso il mio modo di vederla, mi sono accorta che le avevo inquadrate e organizzate come se fossero più cose contemporaneamente: ognuna poteva essere foto e incisione, sembrare in bianco e nero anche se in realtà è a colori, o sembrare qualcosa di alterato o creato al computer, qualcosa di reale o immaginario, di vivo o di morto. Tutto questo poteva e può essere una cosa e un’altra insieme, ed è stato il mio modo di reinterpretare il Canada e la montagna, ed è stato il modo in cui il Canada si è mostrato a me, dove una corteccia di un albero può sembrare un tessuto o qualcosa di vivo, una scultura antica che si sta sfaldando e i paesaggi coperti di neve sembrano animali o simulano il movimento. Ogni foto può simulare combinazioni differenti se ritagliata e associata alle altre, diventando texture e portandoci altrove. Questi ritagli parlano tra loro perché arrivano dalla medesima realtà e sono comunque in dialogo; togliendoli dal loro contesto e mettendoli in un contesto fluido ciò che mostrano diventa esponenziale. La risposta quindi è la più semplice: perché ero lì e perché ciò che ho visto mi ha parlato.
Secondo me la cosa più bella del mio lavoro è il fatto di essere me stessa e di interpretare la realtà con la mia arte, rappresentando il mio modo di vedere.

In che modo la sua ricerca performativa si unisce alla sua ricerca artistica? 

La realtà è fluida e lo sono anche le forme artistiche, quindi perché porsi dei limiti? Nell’arte contemporanea il confine tra scultura, installazione e design, pittura e scultura, pittura e installazione è molto labile. Io credo che non esista un solo modo di vedere le cose e soprattutto di trasmetterle. Uso il medium che trovo più funzionale per ciò che devo dire: se per rendere una sfaccettatura della realtà la performance è la pratica più diretta, uso la performance. È il concetto della visual art: di un mondo che sta intorno a noi, in cui non ci sono divisioni nette. 
Essendo immersi nella realtà, la performance permette di dare un senso a 360 gradi a ciò che si trova intorno a noi, unendo profumi, musiche e movimento, la vita nello spazio con tutto il resto. Ciò non esclude che ci siano anche pittura, installazione, fotografia o altro, anzi spesso la performance è proprio quello che ci permette di capire meglio cosa sta avvenendo in un evento, prendendoci per mano e parlando in modo emotivo chiedendo di osservare le cose con occhi nuovi, scoprendo ciò che inizialmente non avevamo notato. Un bravo performer è in grado di astrarci dalla nostra realtà, staccandoci dal pensiero razionale e guardando quello che c’è di altro, che sia una fotografia o un dipinto, facendo un salto oltre la nostra ragione.