Filippo Alzetta, giovanissimo artista di origine triestina, è in esposizione con la serie “Olympians” presso la galleria d’arte contemporanea “1758 Venice Art Studio”. Egli, mosso dalla passione per il mondo dell’arte fin dall’infanzia, si è allontanato da questa sua predilezione a causa degli studi in ingegneria, riscoprendola in anni recenti concentrandosi sulla creazione di opere dal carattere suggestivo.
Ogni sua raffigurazione mostra uno schema compositivo in cui il soggetto rappresentato in una molteplicità di punti di vista, pare prendere vita sulla carta, creando stratificazioni che si alternano tra spazi pieni e vuoti.
In occasione dell’Esposizione Permanente visitabile fino a giugno 2023, abbiamo avuto l’opportunità di intervistare l’artista, il quale ha condiviso con noi parte della sua carriera artistica, svelando alcune curiosità.
Quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a fare l’artista?
“Ho sempre amato disegnare. Ho preso poi la cosa più seriamente in due fasi: la prima frequentando lo studio di Franco Chersicola, che ha aggiunto una dimensione in più a quello che prima era semplice hobby; la seconda fase può essere collocata nel recente periodo pandemico, che ha messo molte persone nella condizione di rivalutare molti aspetti della propria esistenza”.
Quando è entrato nel mondo dell’arte?
“È difficile trovare un confine temporale o coscienziale di questo mondo, ci entro ed esco probabilmente su base giornaliera”.
Dove ricerca l’ispirazione per creare le sue opere?
“Da ciò che vedo negli altri creatori per creare un bagaglio di linguaggi e da ciò che non vedo negli altri per cercare di proporre un linguaggio per quanto possibile personale”.
C’è un’opera che ritiene più importante per lei? Perché?
“Un lavoro che mi ricorda un cambiamento nel mio approccio alla disciplina artistica si chiama Fobos. È un’opera molto importante, perché rappresenta il mio primo lavoro che non parte da un soggetto ma da un concetto. Da quest’ultimo segue la ricerca del soggetto, cercando, come obiettivo, di rappresentare la sintesi dei due”.
Considerando la sua carriera artistica, ha sempre mantenuto uno stile lineare oppure ha avuto variazioni stilistiche? A cosa sono dovute?
“Limitare i confini del proprio linguaggio, da un lato, aiuta ad affinarlo; dall’altro, a mantenere coerenza. Non ho accumulato una storia tale da poter dividere in fasi il mio lavoro e penso a concentrarmi sulla strada stilistica che ho intrapreso”.
Nelle sue opere esposte a “1758 Venice Art Studio” ho notato la prevalenza di timbri come il grigio, il bianco e il blu. Perché questa scelta?
“L’unico colore che uso per il segno è il nero, bagnando il foglio o stratificandolo con un color carta nascono altri timbri. L’idea è gestire la dualità tra bianco e nero e accentuare o assottigliare questo confine a seconda delle esigenze che casualmente nascono durante la composizione”.
Nell’opera XII, attorno al soggetto centrale, appaiono delle figure di vari animali, che cosa ha voluto rappresentare?
“Il tema di quella serie sono gli dei e i semidei della mitologia greca, accoppiati a due a due con le loro nemesi/opposti/complementari; la dualità in questa serie appare, come nella scelta del colore, anche nella scelta di concetti e soggetti. Dare una spiegazione al pezzo, esaurendo il quesito, probabilmente finirebbe per banalizzare e limitare il modo in cui può essere visto da qualcun altro; spero sempre che i miei lavori – come qualsiasi lavoro in questo ambito – vengano visti nella maniera meno razionale possibile, così da poter cambiare a seconda dell’osservatore o di come lui stesso cambia”.
Perché nessuno dei soggetti nelle sue opere ha le pupille?
“È un modo per separarli dalla dimensione umana, quotidiana. E credo potrebbero distrarre dalla composizione perché per nostra indole ci rapportiamo con gli altri focalizzando l’attenzione sugli occhi”.
Quali sono i sentimenti che suscitano secondo lei le sue opere? Quali sono i sentimenti che ha provato nel realizzarle?
“È più la loro assenza nel realizzarli; i sentimenti per così dire sono una manifestazione egoistica, lavorare a un pezzo idealmente è essere in presenza quindi in assenza di un io; per questo motivo quell’atto è così importante per “l’artista” che è fondamentalmente egocentrico, perché è liberatorio. Per quanto riguarda gli altri non saprei rispondere”.
Con quale criterio sceglie il soggetto dell’opera?
“Il criterio per un tema che posso trattare è che sia parte di un simbolismo, separato dal tempo; però spero possa prevalere sempre una sensazione alla presenza di un soggetto, che spesso è lì al servizio di quella sensazione o più semplicemente della composizione”.
Perché ha scelto questa rappresentazione tridimensionale nel raffigurare i soggetti delle opere?
“Cerco di alternare 2D e 3D per non dare un riferimento spaziale ed essere libero di stratificare la composizione con stili diversi”.
Nelle sue opere ho notato questo richiamo all’arte classica, che cosa ha voluto trasmettere con ciò al pubblico?
“L’ arte classica rispetta dei rapporti geometrici e compositivi che sono separati da tempi e stili e riconosciuti a livello inconscio da ogni osservatore; inoltre – anche per questo motivo- è un riferimento molto identificabile che aiuta ad avere un “punto di facile accesso” nell’approcciarsi a un pezzo”.
Ascoltando le risposte di Filippo Alzetta, risulta chiaro come l’essere un artista possa rappresentare un utopico passaggio ad un mondo “altro”, ma non per questo esterno alla propria quotidianità. Inoltre, è interessante notare che l’artista in questione, con le sue opere, non voglia suggerire emozioni o una particolare lettura del soggetto rappresentato, quanto più ricerchi in esso molteplici visioni, derivate dai diversi dettagli e sfumature che ogni spettatore è libero di percepire e far proprie.
Fatevi guidare dalle suggestioni di Filippo Alzetta, scalando il monte Olimpo alla ricerca degli dèi delle sue opere presso la galleria 1758 Venice Art Studio situa in Calle del Campaniel 1758 a Venezia.