Giulio Galgani è un pittore e scultore nato a Genova nel 1958 e da diversi anni vive e lavora in provincia di Arezzo. A partire dagli anni ‘80, dopo un’iniziale tendenza verso l’arte figurativo-realista, il proprio stile viene indirizzato verso una dimensione enigmatica e metafisica, che negli anni ‘90 subisce influenzata dello street artist Toxic. Oggi Galgani sviluppa la sua concezione di pittura partendo dall’attenzione verso gli elementi del territorio e quelli industriali, diventando gli strumenti privilegiati delle sue opere. Questi elementi, trattati in modo non convenzionale e con uno spiccato interesse alla lavorazione artigianale, danno vita a un tipo di arte primordiale e materica, una sintesi di figurativo e astratto che rappresenta l’incontro tra arcaico ed contemporaneo.
Quali sono le ragioni che l’hanno portata ad iniziare un percorso creativo?
“Credo che le ragioni principali che mi hanno indotto ad interessarmi all’arte siano due: la curiosità e la noia.
Mia nonna dipingeva e mio padre ci ha provato con poco successo.
In casa ho sempre respirato gli intensi odori dei colori ad olio, della trielina e dell’acquaragia; quei profumi mi hanno accolto alla nascita. Capire il processo, che quasi come una magia, trasformava quei colori in un paesaggio o nel volto di un vicino da poco salutato, ha fatto sì che interessarmi a loro fosse inevitabile. E poi, dovevo pur occupare le lunghe giornate che ti regala l’infanzia, quindi i pennelli sono stati sicuramente tra le prime cose che ho stretto tra le mani”.
Quando è entrato nel mondo dell’arte?
“Sono entrato nel mondo dell’arte in punta di piedi, facendo poco rumore. Ho organizzato le prime mostre in spazi pubblici in modo autonomo. Dipingevo per mio piacere personale poiché ancora pensavo alla pittura non come un percorso da condividere. Grazie a queste prime esposizioni ho avuto la possibilità di consolidare dei rapporti con alcuni estimatori e galleristi. La pittura ha assunto pian piano un ruolo sempre più importante nella mia vita. Lo studio e l’amore per il lavoro degli artisti che mi hanno preceduto hanno innescato in me il bisogno di un confronto che ha generato e fatto maturare il mio linguaggio, rendendolo sempre più personale e riconoscibile”.
Da dove parte e come prende vita un suo progetto?
“Nessuna regola definita. Utilizzo quello che la vita mi presenta, tutto è lecito. Le idee, le forme, i concetti arrivano spesso inaspettati. Devo solamente tenere perennemente accesa la connessione con il Mondo. La realizzazione dei miei progetti invece mi richiede più impegno”.
C’è un’opera del suo lavoro che ritiene esplicativa della sua produzione artistica? Perché?
“Tendenzialmente è sempre l’ultima realizzata. Ma oggi posso dire che Inizio di partita sia l’opera che meglio rappresenta il mio lavoro. In questa scultura si percepisce l’ironia di fondo che pervade molto del mio lavoro e il forte legame con le radici della nostra cultura. Non a caso al ciclo delle opere di cui fa parte ho dato come nome I Truschi“.
Quando per lei un’opera è riuscita?
“Le opere riuscite sono quelle che non hanno bisogno di un racconto che le sostenga. Sono quelle che parlano da sole, che smuovono qualcosa dentro di te: un ricordo, una sensazione, una domanda che possa generare un dialogo con te stesso e con il mondo che ti circonda. Sono quelle che resistono alle mode e ai gusti passeggeri di un determinato momento”.
Quanto la società o l’ambiente che la circonda influenzano il suo lavoro?
“Ogni artista racconta il suo tempo, ogni opera è sempre contemporanea. In ogni epoca ci sono uomini che raccontano sé stessi e cosa li circonda, ci raccontano cosa loro amano o odiano, come vivono le loro emozioni e quali sono le loro idee e i loro pensieri.
L’arte, anche la più astratta, racconta la vita perché è destinata al pensiero di un uomo, ogni opera d’arte è figlia del suo tempo. Il mio lavoro non è immune al periodo storico nel quale vivo, attingere dal presente mi è indispensabile”.
Cosa lo ha portato ad elaborare la figura del “Lunatico” rappresentata in diverse sue opere?
“Il Lunatico nasce da un incontro. Non con un extraterrestre come potrebbe suggerire il nome, ma con una persona, una poetessa e scrittrice aretina conosciuta ad una delle mie prime personali di pittura.
Si chiamava Perla Cacciaguerra, per gli amici Selvaggia, e I Lunatici era il titolo di un suo libro da poco pubblicato. Questo nome l’ho fatto mio e traghettato a queste nuove figure, originatesi nelle mie tele grazie all’inspiegabile e bizzarro processo della creatività. Tutte realizzate con il fresato di pneumatico ricordano, data la loro forma essenziale, sia una figura arcaica che una figura umana disegnata da un bambino. Il termine lunatico viene comunemente usato per indicare sia un sognatore che una persona dall’umore instabile: caratteristiche spesso associate ad un artista. Quel nome non potevo certo farmelo scappare…”
Il periodo di chiusura dovuto alla pandemia ha avuto ripercussioni nel suo lavoro?
“Diciamo che la pandemia mi ha concesso molto più tempo da dedicare al lavoro in studio proprio a causa delle limitazioni dei contatti: meno gente intorno, meno distrazioni. Ma al contempo, le implicazioni emotive, gli obblighi comportamentali e le incertezze sul futuro hanno influito pesantemente nel mio processo artistico. Una calamità del genere non poteva passare senza lasciare traccia nel mio lavoro. Il ciclo delle mie opere denominato Lockdown ne è la prova più evidente”.
Qual è il significato della presenza delle ossa in alcune sue opere?
“Le prime che ho utilizzato sono state quelle sotterrate dal mio cane nell’oliveto del nostro podere. Ho trovato queste ossa casualmente durante una raccolta delle olive e subito ne sono stato affascinato. Il tempo le aveva perfettamente ripulite e assomigliavano a dei resti di una civiltà preistorica rinvenuta in uno scavo archeologico. Erano tutte ossa di vitello, nulla di macabro, sicuramente utilizzabili. In molte mie opere sono presenti oggetti e materie differenti, quindi utilizzarle è stato il primo pensiero che ho avuto una volta recuperate. La loro essenza mutabile e deteriorabile nel tempo esprime la caducità della vita e delle cose che ci circondano, nulla è eterno, tutto si trasforma e in breve scompare. Le ossa, collocate in alcune mie opere più recenti, dialoganti con materia e colore, ricordano questo concetto”.