
Lorenzo Minoli, nasce a Torino e si laurea in giurisprudenza presso l’università di Modena e di Reggio Emilia. Durante il periodo di studi coltiva un interesse per la scrittura e un forte amore per l’arte fotografica avviando una stretta collaborazione con la casa editrice De Agostinis, specializzata nella pubblicazione di riviste e libri di fotografia. Questi due interessi si congiungono quando Minoli avvia la propria carriera nel fotogiornalismo, durante la quale note riviste italiane pubblicheranno i suoi reportage e diverse agenzie fotografiche distribuiranno le sue fotografie. Celebre è la sua mostra fotografica rappresentativa del disastro nucleare di Chernobyl allestita pochi mesi dopo l’accaduto; questa sua voglia di raccontare eventi contingenti lo spinge ad iniziare a filmare diversi documentari per poi, dopo quindici anni dall’inizio della sua carriera, iniziare ad interessarsi anche alla produzione cinematografica narrativa trasferendosi negli Stati Uniti. Negli ultimi anni l’esperienza artistica di Minoli ha nuovamente lasciato spazio all’arte fotografica, incentrata sulla produzione di dettagli naturalistici a colori, di ritratti, di strade e monumenti cittadini frequentemente in bianco e nero, dove giochi di luci e linee si adoperano per suscitare particolari emozioni nell’osservatore.
Come ha iniziato il suo percorso creativo?
Ho iniziato con la fotografia in bianco e nero. Durante gli anni di Università a Modena, la cucina era la mia camera oscura e nel frigorifero, di fianco alla salsa di pomodoro, c’erano i contenitori degli acidi per la stampa. C’erano solo una luce rossa e le bacinelle per sviluppo, stampa e fissaggio erano sul tavolo della cucina a fianco dell’ingranditore Durst. Successivamente ho iniziato a scrivere senza MAI abbandonare la fotografia. Ho proseguito lavorando alla creazione di documentari e infine con i film, avvicinandomi nuovamente alla fotografia.
Qual è stato il suo primo approccio al mondo dell’arte?
La proposta delle mie fotografie in Connecticut con una mostra che è durata un mese e durante la quale ho venduto oltre 20 fotografie a tiratura limitata (5 copie) nel 2016.
Da dove parte e come prende vita un suo progetto?
Il progetto fotografico non è un “progetto” in realtà, ma un’esperienza continua. Non mi muovo mai senza la macchina fotografica. Una volta era una mini camera 35mm film ora è una leica tascabile, stesso concetto. Come mi disse una volta un mio regista che voleva girare una scena durante le magic hours: “A great shot is better than an orgasm”, cioè “una bella foto è meglio di un orgasmo”. In una fotografia riuscita c’è tutta la creatività, tutte le emozioni, tutte le storie che si vogliono raccontare.
Quale suo lavoro, o quale aspetto di una sua opera, rispecchia maggiormente la sua personalità artistica?
l momento dello scatto è ciò che più rispecchia la mia creatività. Sono nato con occhi che vedono attraverso il frame e, in questo modo, immagino il risultato della mia fotografia. Quando apro il file osservo ciò che ho fotografato, mi riconosco e mi congratulo con me stesso perché ho scovato l’anima del momento.
Quando ha capito che la fotografia avrebbe potuto essere il mezzo espressivo più adatto a lei?
Da sempre, da quando avevo 12 anni, grazie a mio fratello Carlo, il più anziano di tutti noi. Una notte mi portò al piazzale del castello di Punta Ala, pioveva a dirotto e c’erano non solo tuoni terribili ma anche lampi brutali. Io dovevo coprirlo con un pesantissimo ombrello maremmano, quelli verdi di legno, grandi e molto pesanti. Passammo quattro ore sotto la pioggia circondati da lampi perché mio fratello voleva scattare la fotografia di un lampo. Dopo quattro ore, infreddoliti, mi disse: “Non ci sono riuscito, ma ci abbiamo provato. Quanto è stato bello stare qui circondati da questa natura spaventosa per cercare di fare una foto?”. Da quel momento ho capito che fare una fotografia era un’avventura che volevo vivere sempre e per sempre.
Qual è la più grande sfida di un fotografo?
Non demoralizzarsi mai. Mantenere il proprio stile, sempre.
Il suo lavoro fotografico immortala principalmente elementi naturali estrapolati dal loro contesto. A cosa è dovuta questa apparente astrazione dalla realtà?
Io cerco l’anima nelle cose che ci stanno intorno. L’anima è astratta per definizione, il “raccontarla” con una fotografia non può avere come risultato che un’astrazione. Ma è astrazione reale: non modifico mai la realtà. Non faccio photoshop dei colori. Non faccio macro. Con la lente entro nel soggetto e poi lo ingrandisco infischiandomi della definizione e dei pixel.
Quali differenze ci sono nel suo modo di approcciarsi alla cinematografia rispetto al suo metodo fotografico? Come dialogano la sua professione di fotografo e quella di produttore?
Il cinema mi ha fatto vincere l’Oscar della televisione in America e sono stato nominato per altri due, vincendo molti premi. Ma fare un film richiede una disciplina notevole, richiede il rispetto di regole precise. Fare una fotografia regala invece la libertà totale. Succede lo stesso quando si intende scrivere una sceneggiatura. Questo comporta adattare la propria creatività ad uno schema che permette di trasformare lo scritto in un film, invece scrivere un libro permette la libertà totale e regala a chi legge la possibilità di sognare. Fare fotografie per me è come scrivere un libro, faccio ed ho fatto entrambe le cose. Questo mi permette di regalare emozioni diverse per ogni persona che guarda un mio lavoro o che legge un mio libro.


