Daria Cerqueni ha recentemente preso parte a Bottega ‘500, una mostra d’arte contemporanea organizzata dallo studio di consulenza Tivarnella Art Consulting, in collaborazione con 1758 Venice Art Studio e Associazione Il Sestante, presso la Blue Gallery di Manhattan, New York. Affascinata da luoghi inesplorati o immaginari, è un’insegnante e viaggiatrice. Le sue opere fanno parte di collezioni europee e vengono esposte in gallerie internazionali. L’Antica Grecia e la mitologia fungono da matrici del forte senso evocativo percepibile nella sua produzione artistica.
Che cosa l’ha spinta a intraprendere un percorso creativo?
Da quando ero piccola ho assorbito l’arte. Mio padre era uno spirito raffinato, un uomo di cultura che mi ha avvicinato a questo mondo, infatti in giovane età desideravo frequentare la scuola d’arte, ma la vita ha deciso di farmi intraprendere un percorso diverso: ho lavorato come insegnante di educazione fisica e nel mentre facevo teatro, mantenendo così un legame con l’ambito creativo. Appena ho avuto la possibilità ho iniziato a studiare con Paolo Cervi, cui devo molto, che mi dissuase dal frequentare l’Accademia d’Arte per mancanza di artisti professori in quel momento. Così continuai ad apprendere nel suo studio. Ho vissuto Parigi, dove ho assorbito tutta l’arte con cui sono riuscita ad entrare a contatto, presenziando ad ogni mostra che venisse organizzata. È qui che ho conosciuto il maestro cinese Sao Wu Ki: gli scrissi e gli mandai alcuni miei lavori. Nonostante fosse difficile entrare in contatto con lui, riuscii a raggiungerlo: apprezzò molto i lavori degli albori della mia produzione.
Come è nato il suo interesse per l’arte orientale? Quanto questo mondo ha influenzato la sua arte?
Devo questo interesse per l’arte orientale a Zao Wu Ki, ma anche al Giappone: a Parigi vi era un centro ormai chiuso, dove venivano allestite solo mostre sul Giappone, poi al museo d’arte Guimet. Dipingo spesso con la Gagaku in sottofondo, musica medievale del Giappone, ma anche con la sua musica contemporanea e il jazz.
Quale ruolo riveste il colore all’interno della sua produzione pittorica? Cosa la conduce alla scelta di una determinata tavolozza?
Non glielo so dire. Prima d’ora non avevo mai lavorato con il blu, ho avuto un periodo in cui mi sono dedicata al mio grande amore per la natura, soprattutto agli alberi e ai boschi, quindi con una tavolozza prevalentemente verde. Ora invece predomina il blu, ma il colore nelle mie tele cammina da solo, come i miei lavori: nulla è programmato. Mi metto davanti la tela e lì succede qualcosa, la tela si fa e si disfa, nel senso che talvolta basta un tocco e la tela non mi parla più, si disfa da sola e devo ricominciare tutto. Una volta avevo iniziato con un colore chiaro, inusuale per me ma che nonostante ciò mi soddisfava, fino a quando non è crollato ciò che sentivo e ho dovuto ricominciare, girando e rigirando la tela, mettendola in orizzontale. Ora sono soddisfatta.
Quali influenze, o studi artistici, l’hanno guidata nella creazione del suo stile personale? Si sente affine a un movimento artistico particolare?
Paolo Cervi sicuramente è stato un grandissimo arricchimento. Nel suo studio ho avuto il modo di leggere nel tempo libero libri di pittori di tutte le tecniche e gli stili, gli stessi che sperimentavo in seguito alla lettura, soprattutto con i carboncini tratti da Seurat. Non mi identifico però con nessun movimento artistico: ne ho amati molti ma non mi sento di affermare di appartenere ad uno di loro. Mi identifico unicamente con Zao Wu Ki, Soulage nei suoi dipinti neri degli ultimi anni e nei video di Bill Viola, da cui riprendo le luci e le cascate, ma di questa ripresa me ne rendo conto unicamente a lavoro terminato, non vi è nulla di volontario.
Quali sensazioni o riflessioni si propone di far emergere nel suo pubblico attraverso la sua produzione artistica?
Non mi propongo nulla. Dipingo ciò che emoziona me, ciò che possiedo nel mio animo e che emerge da solo, indipendentemente dalla mia volontà. Lavora il mio cervello, è il mio sentire, non è un volere se non nei punti luci che sono l’unica cosa che pongo volontariamente. I miei quadri non sono mai negativi, vi è sempre una luce che emerge, poi l’interpretazione è soggettiva, difficilmente spiego ciò che penso e provo nel dipingere un determinato quadro.
Ritiene che intercorra un rapporto di reciproco scambio tra la sua produzione di acquerelli e gli olii su tela?
No. Ogni tanto mi rendo conto che c’è qualcosa che ritorna in qualche piccolo punto degli oli, ma non c’è un richiamo, sono due cose talmente diverse e fatte in modo diverso, che non ve ne possono essere.
In che modo la sua indole di viaggiatrice entra in relazione con il suo operato artistico?
In passato ho avuto modo di viaggiare molto. Nelle mie opere però entra di più ciò che ho letto e visto che i miei viaggi. Amo leggere, leggo di tutto, sono onnivora. Se c’è un richiamo però alla mia esperienza me ne rendo conto dopo: a quasi ottant’anni ho vissuto tanto, tante esperienze che una persona crede di aver dimenticato ma che in realtà rimangono lì e riemergono nei quadri, come parlare una lingua, ritorna alla memoria quando si parla, si riapre una parte di cervello che schiude tutti questi ricordi. La musica, la lettura e tante cose viste, viste perché ho viaggiato, ma non è solo limitato a quello, penso che non sia necessario viaggiare per vedere, viaggiare serve a conoscere altri esseri umani. Dei miei viaggi ricordo di più le persone che i luoghi in sé.