Intervista all’artista Francesco Biondo

Francesco Biondo, artista siciliano, ha recentemente preso parte a Bottega ‘500, una mostra d’arte contemporanea organizzata dallo studio di consulenza Tivarnella Art Consulting, in collaborazione con 1758 Venice Art Studio e Associazione Il Sestante, presso la Blue Gallery di Manhattan, New York. Biondo ha studiato architettura, specializzandosi a Milano. La sua ricerca artistica ha inizio durante l’infanzia, legandosi in seguito a movimenti studenteschi e alla ricerca di avanguardia. Impegnato in progetti e mostre in tutta Italia e in Europa, le sue opere si confrontano con un forte impegno sociale e pubblico, dove il gesto dell’Espressionismo astratto converge con la materialità dell’Arte Povera.


Qual è stata la sua prima esperienza nel mondo dell’arte?

La mia prima esperienza con l’arte risale ai banchi di scuola. Il ricordo si lega a un insegnante in lungo abito talare, nero…un’immagine che evoca situazioni di noia mortale, da dimenticare.
Qualche anno dopo, per fortuna, un’esperienza decisamente diversa ha sollevato quella cappa di pesante grigiore: l’attività nell’area creativa del movimento studentesco del ‘77. Qui, l’espressione artistica era vista come una dilatazione creativa del quotidiano, uno strumento politico. L’esigenza di riappropriarsi degli spazi — fisici e non — insieme alla necessità di ridefinire le modalità relazionali e comunicative, mi ha offerto l’opportunità di sperimentare. In una dimensione collettiva mi sono dedicato non solo all’uso di segni grafici e colori per la creazione di immagini, ma anche alla realizzazione di installazioni e happenings, in uno spirito che richiamava sia il Situazionismo che il Dadaismo. La prima iniziativa interamente ideata, progettata e curata da me è invece stata la
Mostra in-continuo-allestimento, allestita in uno spazio verde pubblico. Per alcuni giorni, le cancellate di recinzione e alcuni supporti mobili hanno ospitato le opere di una trentina di giovani artisti che liberamente si integravano e alternavano. Per quanto riguarda la mia “opera prima” storicizzata, devo menzionare l’installazione Porta-Terra del 1986. Utilizzando materiali poveri principalmente di riciclo, ho sviluppato una riflessione metaforica sulla toponomastica storica di una delle piazze centrali di Cefalù. Un vecchio portone socchiuso, ferro e tracce di colore, posti su un cumulo di terra, costituivano il cuore di questa installazione.

Cos’ha determinato il suo interesse per gli ibridi stilistici? Ci sono state delle influenze artistiche specifiche che l’hanno guidata nella creazione di un proprio stile personale?

Ho sempre creduto che la ricerca e la riproposizione di uno stile personale, quando diventa una necessità ossessiva e metodica per garantire la propria riconoscibilità nel vasto oceano dell’arte, rischino di trasformarsi in una gabbia. Piuttosto che le restrizioni, mi interessano le aperture; piuttosto che le contrazioni, mi attraggono le dilatazioni. Sono affascinato da uno sguardo aperto alle molteplici, quasi infinite, sollecitazioni e suggestioni. Alla presentazione di una mia mostra nel 2000, Marcello Panzarella dopo una lunga serie di riferimenti, scriveva: “[…] e mi pare che Francesco Biondo abbia preso a percorrere anche questa strada, e che, come un nomade, vada ora raccogliendo pezzi […]”. Accostamenti, contrappunti, contrapposizioni, contrasti, dissonanze: questi elementi caratterizzano il mio lavoro. A volte, gli elementi che compongono le mie opere sono talmente diversi tra loro che persino io sperimento un senso di spaesamento, al punto da percepire una mia esposizione personale come una mostra collettiva. Per fortuna, poi, ne riconosco sempre i fili. Individuare influenze specifiche è per me sempre stato difficile. Tuttavia, riconosco un debito verso artisti come Luigi Russolo e i Futuristi, Hans Arp, Graham Sutherland e l’astrattismo organico, Hieronymus Bosch, il critico Pierre Restany, James Ensor e l’uso espressionista del colore, Mario Merz e l’Arte Povera. Devo molto anche a figure come Samuel Beckett, Giosetta Fioroni e Willem De Kooning.

In passato ha individuato il nucleo della sua pratica creativa nella “cultura del frammento”. Questa affermazione è ancora valida?

Ho sempre concepito i miei lavori come frammenti, come ritagli di un tutto più grande. All’inizio degli anni ‘90, ho realizzato opere di grande dimensione chiamate Universi caratterizzate da forme ovali che evocavano al contempo nuclei monocellulari e planisferi cosmologici. Indicando un punto all’interno del quadro, mi piaceva affermare che lì si trovava l’ipotetica collocazione di un altro mio lavoro/frammento. Questo gioco della dislocazione era applicabile a tutti i miei lavori, a volte in maniera diacronica. Senza eccezione, tutte le mie opere erano parte di queste metafore di universi. Negli anni ‘90, l’inserimento di elementi materici ha ulteriormente potenziato l’idea del frammento, del pezzetto, del ritaglio, conferendo una dimensione tridimensionale a queste esplorazioni. Sebbene questa concezione sia ancora valida, la percezione è oggi diventata per me un po’ più sfumata, in particolare quando l’opera assume una connotazione particolarmente definita. Tuttavia, rimane sempre forte la suggestione del quadro come finestra che delimita una porzione di spazio, che a sua volta può essere visto come un frammento di un universo più vasto.

Da dove nasce e come prende vita un suo progetto?

Non credo di avere una modalità standard per dar vita ad un progetto. Gli spunti e le sollecitazioni possono provenire dalle fonti più disparate: uno sguardo, un’emozione, una richiesta o persino un’allucinazione. Alcuni progetti nascono già definiti e precisi, mentre altri maturano lungo il percorso, talvolta con cambi di rotta e trasformazioni significative.
Alcuni giungono a compimento, esaurendosi naturalmente, mentre altri restano abbozzati o vengono accantonati. Poi ci sono quelli che restano “chiusi nel cassetto” in attesa di chissà cosa. Per dare risposte significative alla domanda, bisognerebbe analizzare e raccontare ogni singolo progetto.

Ad esempio, la serie See-blue-through del 2004 è nata dal ritrovamento casuale, notturno, di acetati prestampati, con le loro prevalenze di blu, valorizzati dalle trasparenze. La serie Kromotipie, dai lignei reperti (2006-2015) è stata invece ispirata dal recupero di assi di legno provenienti dal pavimento di un vecchia baita in demolizione in Val Sesia.
La serie
Gli Indignati ha preso forma a metà degli anni 2000, in un’Italia segnata dai Grandi processi, dalle Grandi assoluzioni e dalle Grandi impunità per le Grandi stragi di Stato, da Piazza Fontana a Ustica. In particolare, dalle assoluzioni del 3 maggio 2005 per i neofascisti Maggi, Rognoni e Zorzi, e del 15 dicembre 2005 per i generali Bertolucci e Ferri, con il contorno di scandali che coinvolgevano alti organi dello Stato, depistaggi e insabbiamenti.

Ci può parlare del suo progetto La Storia Dipinta? Che cosa l’ha spinta a realizzarlo?

La serie degli Indignati costituisce proprio il nucleo fondante del progetto La Storia Dipinta, che si sviluppa ulteriormente attraverso la sollecitazione di altre date, eventi, episodi e circostanze. Il progetto è ancora in corso. Tra le infinite possibilità, scelgo sempre le date in cui la collettività si esprime, la giustizia emette sentenze, il potere politico promulga leggi e decreti; il mondo della cultura assegna premi e riconoscimenti; la società civile afferma diritti e mette in crisi pregiudizi. Oppure, al contrario, quei momenti in cui i diritti vengono negati o le verità oscurate. Alcune di queste date emblematiche sono:
20 agosto 1993: gli accordi di Oslo sulla questione palestinese;
16 ottobre 1946: la condanna dei gerarchi nazisti a Norimberga;
15 ottobre 2015: l’assoluzione di Erri De Luca dall’accusa di sabotaggio della TAV;
18 aprile 2010: le tragedie e i morti nel Mar Mediterraneo;
22 settembre 2017: l’acquisizione del diritto alla guida per le donne in Arabia Saudita;
1 maggio 2003: la mancata incriminazione di George Bush come criminale di guerra;
2 dicembre 2014: il riconoscimento del diritto di asilo anche per motivi di orientamento sessuale;
In questo contesto, la Storia diventa il soggetto centrale dell’opera d’arte, intesa come esercizio di memoria collettiva. Allo stesso tempo, l’opera d’arte rende omaggio a figure di spicco con la serie
Io la mia vita l’ho vissuta tutta, che include personalità come la poetessa Alda Merini, il premio Nobel Dario Fo, il partigiano Giovanni Pesce, l’intellettuale Primo Moroni, il patriota risorgimentale Salvatore Spinuzza, lo scrittore Vincenzo Consolo. Questo progetto è riconoscente del lavoro di molte menti e intelligenze operose che, nel corso degli anni, hanno offerto alla collettività spunti di riflessione attraverso le loro opere artistiche. Esso esplora la funzione sociale dell’arte, l’arte politica in senso stretto e, infine,
l’arte di denuncia.

Nelle sue opere appare spesso la parola scritta. Che ruolo ha il linguaggio all’interno della sua produzione?

Ricordo ancora quanto mi ha colpito, da ragazzo, scoprire che i giapponesi usano lo stesso termine, “kaku”, sia per l’atto del disegnare sia per quello dello scrivere, senza distinguere tra le diverse connotazioni che il segno può assumere. Questa scoperta mi ha portato a riflettere a lungo sui linguaggi, sulla loro duttilità e versatilità. È interessante considerare come i linguaggi, oggi più che mai, siano sempre più “integrati” e, attraverso un processo di contaminazione reciproca, utilizzino segni tradizionalmente appartenenti ad altre forme espressive. Credo quindi che la scrittura possa trovare un posto naturale all’interno di un’opera pittorica, alla pari di una pennellata o di un rimando iconografico, contribuendo al processo comunicativo e offrendo ulteriori spunti di lettura e interpretazione. Essa inoltre può aiutare a chiarire l’intento dell’artista o semplicemente creare delle connessioni che arricchiscono il significato dell’opera. Questi indizi possono rivelarsi particolarmente utili quando l’opera è dominata da una componente astratta e/o informale.

Crede che la pittura possa essere un mezzo per contrastare lo scorrere del tempo?

La pittura e il tempo sembrano seguire paradigmi diversi. Sebbene a volte interagiscano, più spesso si muovono su piani paralleli, talvolta persino in direzioni opposte. Ritengo difficile che la pittura, e l’arte in generale, possano realmente contrastare il fluire del tempo. Al contrario, alcuni movimenti artistici come ad esempio il futurismo e la pop art sembrano aver addirittura accelerato questo processo. Da un’altra prospettiva, un quadro — così come un oggetto d’uso quotidiano, un suono registrato, la stratificazione di una roccia, una fotografia, una data, una parola scritta, un insetto su un fiore — è una sorta di fermo immagine. In tal senso, esso interagisce per contrasto con il fluire del tempo, ne cattura un momento, ma si tratta di un contrasto illusorio: il tempo scorre inesorabilmente. Anzi, il suo passaggio si manifesta proprio sull’opera d’arte, attraverso il suo deterioramento. Da questo punto di vista, mi sembra che possa essere piuttosto il restauro a giocare un ruolo più efficace nel tentativo di contrastare davvero il tempo.

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