Intervista all’artista Gaetano De Faveri

Gaetano De Faveri ha recentemente preso parte a Bottega ‘500, una mostra d’arte contemporanea organizzata dallo studio di consulenza Tivarnella Art Consulting, in collaborazione con 1758 Venice Art Studio e Associazione Il Sestante, presso la Blue Gallery di Manhattan, New York. Nella sua produzione artistica, fotografia e ricerca psicologica si confrontano in un’indagine che pone al primo posto un punto di vista critico al reale. De Faveri ha frequentato la scuola di fotografia in Toscana e, dopo la camera oscura, si è specializzato nell’elaborazione grafica digitale che diviene tutt’uno con il processo fotografico. Ha ottenuto riconoscimenti in premi internazionali e le sue opere sono esposte in mostre internazionali. I suoi libri fotografici indagano l’umano nella sua dimensione contemporanea e sociale.


Che cosa l’ha spinta ad intraprendere un percorso creativo?

Il percorso creativo nasce da un bisogno espressivo e dalla ricerca di linguaggi che consentano la comunicazione con la società. Per me la necessità espressiva nasce quasi sempre da un malessere personale connesso alla percezione critica dell’ambiente che mi circonda.

Quale è stato il suo primo contatto con il mondo dell’arte e, in particolare, con il mondo della fotografia?

L’arte pervade tutta la nostra società da secoli. L’Italia respira arte. È difficile individuare un momento preciso. Forse quando le forti emozioni, connesse alla vita professionale, creando il bisogno espressivo, mi hanno fatto individuare nel linguaggio artistico il canale più adeguato a creare la connessione tra aspetti interiori e realtà esterna. La fotografia funziona bene perché consente di correlare in maniera inequivocabile l’esistenza dell’oggetto reale, senza il quale non potrebbe esistere l’immagine, alla libertà creativa dell’autore oggi enormemente amplificata dalle nuove tecnologie.

Da dove parte e come prende vita un suo progetto fotografico?

Come accennato nei punti precedenti, la leva creativa è sollecitata dalla percezione di una criticità per lo più di tipo sociale. La necessità di un’analisi e di un approfondimento che vada oltre l’apparenza per sollecitare le corde dell’emotività e creare sintonia tra autore e osservatore.

I suoi studi psicologici hanno influenzato le sue opere? Se sì, quanto?

La mia formazione in psicologia e i molti anni di lavoro in psichiatria sono il cardine dal quale nasce tutto. La necessità di curare le emozioni proprie e altrui, la partecipazione alla storia delle persone, la famigliarità con il linguaggio simbolico, la necessita di viaggiare tra onirico e reale, il surrealismo presente nelle relazioni con la psicosi hanno fatto tutto.

Dal suo punto di vista, qual è il ruolo dell’artista all’interno della società contemporanea?

Credo che il ruolo non sia mai cambiato. Sicuramente sono cambiati i mezzi, le tecniche e i linguaggi. La funzione però, spesso anche inconsapevole, è di leggere e comunicare, creare consapevolezza sul nostro vivere nella contemporaneità. Non tutti gli “artisti” sono interessati a questi assunti, ma non possono esimersi dall’ essere testimoni del tempo che stanno attraversando nel loro qui ed ora e quindi non possono sfuggire al loro contributo di testimonianza.

Nelle sue opere la commistione tra fotografia e postproduzione digitale è molto profonda. Lo scatto fotografico è pensato già di per sé in relazione alla sua futura elaborazione?

La fotografia è lo strumento per “prelevare la realtà.” La postproduzione è lo strumento per costruire nuove connessioni che consentano di accedere ai contenuti meno visibili della stessa (nuovi mondi per spiegare l’attuale mondo). Le immagini sono pensate in parte razionalmente ma anche lasciate fluire liberamente creando sintonia tra concetto ed emozione. Non riesco a definire come si generino nel loro intersecarsi, forse dipende da un meccanismo subconscio attivato dalla struttura del progetto pensato.

I suoi libri fotografici potrebbero essere definiti delle vere e proprie narrazioni, si riconosce in questa affermazione?

Sono ricorso al libro proprio perché ho bisogno di una storia per riequilibrare le mie emozioni. Naturalmente la sequenza delle immagini non risponde a regole grammaticali e di sintassi. Proprio questa libertà consente il rispecchiamento nelle immagini a tutti noi e ognuno può essere in sintonia o in dissenso ma non può uscire dalla narrazione esistenziale collettiva.

A quale progetto sta lavorando attualmente?

Attualmente, per essere coerente con quanto affermato fino ad ora, ho due lavori che mi vedono impegnato. Uno l’ho intitolato Algoritmia. Vorrebbe essere un tentativo di confronto con la potenza della nuova “divinità algoritmica” che sta plasmando la nostra cultura. Il secondo che ho denominato Conflitto cerca di essere una metafora della guerra e della distruzione che ci circonda e che potrebbe ingoiarci.

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