Intervista all’artista Michela Bernasconi

Michela Bernasconi ha recentemente partecipato a Bottega ‘500, una mostra d’arte contemporanea organizzata dallo studio di consulenza Tivarnella Art Consulting, in collaborazione con 1758 Venice Art Studio e Associazione Il Sestante, presso la Blue Gallery di Manhattan, New York. Diplomatasi presso la prestigiosa Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano, ha in seguito frequentato l’Istituto Italiano di Fotografia conducendo una ricerca che esplora lo studio della natura e l’autoritratto simbolico. Dalla sua pratica fotografica emergono gli studi legati all’arte pittorica, punto di incontro tra obiettivo e tela. Le sue opere sono parte di esposizioni internazionali e si interfacciano con un pubblico europeo e internazionale.


Come ha iniziato il suo percorso creativo e quale è stato il suo primo approccio al mondo dell’arte?

Ho sempre amato l’arte nelle sue molteplici forme; l’arte, assieme alla filosofia, è sempre stata il mezzo con cui l’uomo indaga sul mondo che lo circonda e questo tipo di curiosità mi ha portato a frequentare l’Accademia di Belle Arti di Brera. Lì ho iniziato seguendo il corso di pittura e ho potuto sperimentare anche altre tecniche come l’incisione e l’acquerello cercando di soddisfare il desiderio di esprimermi. Queste origini pittoriche hanno una grande rilevanza del mio bagaglio artistico e nel mio approccio al mezzo fotografico.

Quando ha capito che la fotografia avrebbe potuto essere il mezzo espressivo più adatto a lei?

Durante gli anni in Accademia più approfondivo lo studio dell’arte contemporanea più cominciavo a conoscere ed apprezzare numerosi artisti che utilizzavano la fotografia come mezzo espressivo. Da lì è diventato naturale utilizzare il mezzo fotografico per la realizzazione dei miei lavori. Inoltre amo moltissimo l’aspetto tecnologico e la precisione che la fotografia richiede per ottenere ciò che vuoi per la tua immagine. La fotografia è un mezzo molto generoso, grazie alle potenzialità del digitale si ha la possibilità di creare mondi immaginari infiniti che mi permettono di tradurre in immagini le mie sensazioni.

La sua esperienza artistica come fotografa ha influenzato il suo sguardo nell’osservare la società o l’ambiente che la circondano?

Certamente la fotografia richiede un occhio attento ai particolari e alle sfumature e un fotografo, anche solo scegliendo un’inquadratura, fa un’accurata valutazione di cosa mostrare nella sua immagine. Non racconta mai la verità ma sempre e solo il suo punto di vista. Quindi sicuramente lo sguardo con cui si approccia al mondo è filtrato dal proprio vissuto, dalle proprie esperienze. Vi è un processo di introspezione e riflessione, nel mio caso in particolare con l’uso dell’autoritratto, che influenza il modo di vedere se stessi e il mondo. Ogni progetto diventa un’occasione per raccontare storie, per sottolineare aspetti magari dagli altri trascurati.

Da dove parte e come prende vita un suo progetto?

Difficile dire da dove viene un’intuizione, è come un colpo di fulmine. L’ispirazione può arrivare davvero da moltissime fonti: un luogo, un incontro, un libro, un film… Quando però arriva l’idea poi inizia un percorso di studio e approfondimento; scelgo quante immagini realizzare per il progetto, il formato, la coerenza formale. Solitamente inizio proprio da un frame bianco vuoto in cui vado ad inserire gli elementi fotografici lavorando in postproduzione con montaggi o sovrapposizioni. Spesso i miei lavori nascono parecchio tempo dopo aver effettuato gli scatti, come se. l’immagine debba sedimentare prima di poter prendere vita e arricchirsi del significato del progetto.

Che significato assume l’elemento naturale all’interno delle sue opere? Può fare un esempio facendo riferimento ad uno dei suoi progetti?

Nelle mie immagini non voglio mai raccontare un luogo per come è ma per quello che mi ha trasmesso da un punto di vista emotivo. L’elemento naturale diventa un pretesto per raccontare delle storie. In Sentieri d’acqua, ad esempio, l’uso delle sovrapposizioni racconta i diversi momenti della marea nella baia di Mont San-Michel. Certo solo in un luogo così particolare potevano nascere immagini da un così ampio respiro ma allo stesso tempo non ho voluto raccontare il luogo ma l’interazione tra cielo, acqua e terra da un punto di vista simbolico e archetipo.

Il corpo è un grande protagonista delle sue opere: che cosa rappresenta per lei? Cosa l’ha spinta a riflettere sul corpo e sulla sua fisicità?

Il corpo per me è un mezzo, per raccontare delle storie, dei simboli. In Uscite dall’ombra interpreto le donne di Ulisse viste in chiave moderna e critica rispetto a come nella storia sono state rappresentate. In altri autoritratti invece trasformo in immagine una riflessione profonda sui vari aspetti della mia fragilità che potrebbe però essere universale e appartenere a moltissime altre persone. In Legami, ad esempio sottolineo alcuni aspetti di vulnerabilità che fanno parte della mia personalità e più in generale del nostro tempo e che non sempre si ha voglia di affrontare, da qui l’uso nell’immagine degli occhi chiusi. In Italia, torna il tema dello sguardo bendato e ad un uso del corpo più universale per rappresentare un concetto e non la persona. In generale non c’è un intento narcisistico di parlare di me stessa, quanto di utilizzare l’elemento umano per narrare nuove storie.

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