Francesca Maddaloni ha recentemente partecipato a Bottega ‘500, una mostra d’arte contemporanea organizzata dallo studio di consulenza Tivarnella Art Consulting, in collaborazione con 1758 Venice Art Studio e Associazione Il Sestante, presso la Blue Gallery di Manhattan, New York. Esploratrice degli strati dell’umano, scienziata di formazione, da sempre appassionata alla fotografia e alla pittura, Maddaloni realizza opere che sono un connubio di queste arti. I suoi lavori sono stati esposti a Parigi, Firenze, Bruxelles, Mosca, Amburgo, Torino, Milano, Venezia.
Quali sono le ragioni che l’hanno portata ad intraprendere un percorso all’interno del mondo dell’arte?
Sono molteplici. In primo luogo, fin da quando ero piccola adoravo dipingere e disegnare. La pittura e il disegno, infatti, sono delle passioni che ho portato avanti parallelamente agli studi e alla geologia (altro grande amore della mia vita).
Una seconda motivazione deriva dalla consapevolezza che da quando ho cominciato in maniera costruttiva a seguire un percorso artistico coerente, ho avuto modo di interfacciarmi profondamente con tante parti del mio essere che prima avevo solo il sentore di conoscere.
Un’altra importante ragione è stata sicuramente la necessità di dare un senso e una forma al mio spirito creativo, combinandolo con quello della ricerca. La ricerca è sempre stata il carattere fondamentale della mia parte scientifico-razionale. Quando ottenni il dottorato di ricerca in geofisica non considerai l’estremo rigore necessario allo sviluppo e realizzazione dei progetti di ricerca nel campo scientifico. Gli ambienti competitivi dei laboratori mi portarono a voler fuggire sempre più lontano da quel sistema. Mi resi conto allora che intraprendere un percorso di ricerca artistica poteva essere l’unica via tangibile per poter nutrire sia la mia parte razionale e scientifica che, soprattutto, quella estrosa e creativa che fino ad allora aveva avuto sempre uno spazio marginale e secondario ma che in realtà mi definisce più di qualsiasi altra cosa. Intraprendere un percorso artistico mi ha permesso quindi di comprendere meglio me stessa dando finalmente una casa a quella parte di me che per molto tempo chiedeva di avere una dimensione tutta sua.
Che ruolo ricopre la fotografia all’interno della sua evoluzione artistica?
Sebbene oggi abbia diminuito l’attività fotografica rispetto al passato, la mia personale evoluzione artistica senza la fotografia sarebbe pressoché minima, se non nulla. La prima macchina fotografica, una Canon AE-1 (analogica), la presi in mano all’inizio del 2007, periodo in cui cominciai l’università. Da quel momento abbandonai la pittura e il disegno per dedicarmi alla fotografia e non ho mai smesso di scattare, si può dire, fino ad oggi. In particolare, dal 2008 al 2021 ho realizzato scatti fotografici di ogni genere, sia attraverso macchine fotografiche analogiche che digitali. Nel periodo universitario del triennio a Torino ero una freelance, mi sono sempre occupata di reportage, ritrattistica, concerti live di band musicali e talvolta anche cerimonie. Viaggiavo spesso con la mia macchina fotografica partecipando a eventi culturali di ogni genere e, quando capitava, collaboravo con amiche giornaliste per la realizzazione di articoli di giornali alla quale concedevo le mie immagini come supporto. Attraverso la collaborazione con amici che gestivano giornali web, partecipai come fotografa a eventi come la Mostra del cinema di Venezia. Per tutte queste ragioni legate alle esperienze, ai viaggi, e alla pratica, se penso al ruolo che ricopre la fotografia all’interno della mia personale evoluzione artistica, non posso negare che sia fondamentale. Da un punto di vista più tecnico, invece, la fotografia (come anche in parte la geologia) mi ha insegnato a guardare il mondo da angolazioni diverse, notando che le regole legate alle proporzioni delle forme, della luce, così come le regole compositive potevano giocare un ruolo straordinario in fase di realizzazione dell’immagine, soprattutto nel campo della fotografia in bianco e nero, che ho sempre prediletto per la sua essenzialità. È proprio con la fotografia che ho cominciato a studiare seriamente il mondo delle proporzioni, della luce, delle vie di fuga, delle forme, dell’inserimento dei soggetti nello spazio e tutta la parte tecnica dietro gli studi dell’arte figurativa che oggi utilizzo anche per il lavoro pittorico che realizzo.
Nelle sue opere unisce il disegno e l’arte fotografica. Cosa l’ha portata a far dialogare queste due tecniche artistiche?
Sicuramente l’esigenza di dare unità e omogeneità a due tecniche artistiche fondamentali nel mio percorso di crescita come essere umano che, prese singolarmente, mi portavano a realizzare composizioni opposte, sia tecnicamente sia da un punto di vista di significato e presupposti. Infatti, la pittura è sempre stata per me una tecnica artistica guidata dal puro istinto. Non dipingo mai nei momenti di stabilità, anche se uso molti colori che spesso risultano essere accesi e saturi. Viceversa, nella fotografia realizzo quasi esclusivamente opere in bianco e nero o dai colori desaturati, con contrasti ben marcati. I progetti fotografici che realizzo sono sempre molto ponderati, riflessivi, progettati, strutturati e organizzati con largo anticipo, niente viene lasciato al caso.
Pertanto, un altro aspetto che mi ha portato a far dialogare queste due tecniche è sicuramente la curiosità di scoprire cosa sarebbe accaduto se avessi trovato un punto di congiunzione tra queste due forme espressive che rispecchiano la mia personalità così fortemente bivalente.
Quali influenze artistiche l’hanno guidata nella creazione di un proprio stile personale?
Sono sempre stata guidata dall’occhio di tutti i maggiori fotografi del Novecento, insieme a quelli diventati icone del periodo a cavallo tra questi ultimi due secoli. In particolare: Henri Cartier-Bresson, Peter Lindberg, Sebastião Salgado, Robert Capa, Lisetta Carmi, Annie Leibovitz, Mario De Biasi, Alfred Eisenstaedt, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, William Klein, Herbert List, Ugo Mulas, Ferdinando Scianna e Steve McCurry. Unitamente a loro, nella pittura e nel disegno, dei maestri che mi hanno spesso ispirata sono: Edward Hopper, Mark Rothko, Jackson Pollock, Willem de Kooning, Barnett Newman e tutta l’arte indipendente sub-urbana che si poteva trovare nelle aree metropolitane europee ed extra-europee: la street art e i writers come Jean-Michel Basquiat, Banksy, Shepard Fairey, Keith Haring, Dondi White, RETNA (Marquis Lewis) e gli illustratori di fumetti come Alan Moore, Hugo Pratt e Art Spiegelman. Le porte scrostate dei locali alternativi che frequentavo, dei circoli culturali, i muri pieni di adesivi scrostati, il cemento colorato dalle lacche, i graffiti disegnati sul muro di Berlino hanno sicuramente contribuito a influenzare il mio stile personale.
Quali fasi si celano dietro la progettazione delle sue opere?
Le fasi che si celano dietro la progettazione delle mie opere sono molteplici e tendenzialmente alternate e sovrapposte l’una all’altra. Credo che le opere siano un insieme di strati disposti uno sopra l’altro che partono dalla creazione di uno sfondo (layer base). Nelle fasi intermedie poi si intercalano livelli di pittura e pezzi di fotografia fino a quando sia il colore che le immagini non si confondono completamente diventando un tutt’uno. È a quel punto che si lega il tutto con le linee e forme al carboncino, gessetto e altri strumenti che uso per i dettagli e i contorni.
All’interno delle sue opere la fotografia viene fisicamente mutata mediante strappi e alterazioni, in che modo questi interventi agiscono sul messaggio che vuole trasmettere attraverso le sue realizzazioni?
Per comprendere il significato degli strappi, e quindi, più in generale, delle mie opere, non si può non considerare il contesto storico in cui sono nata, cresciuta, e formata. Sono nata nel 1987 in un paesino di provincia del basso Piemonte, in una famiglia di origine meridionale emigrata nel nord ovest d’Italia. La mia famiglia, estremamente tradizionale, patriarcale e presente, da una parte è stata un punto di riferimento importante, ma dall’altra mi è sembrata per molti anni un ostacolo che impediva la mia autonomia e crescita personale. Nella mia famiglia, l’arte era un hobby, uno svago o un gioco.
Gli strappi alle fotografie sono quindi la mia catarsi. Sono la risposta alla mia frustrazione ma anche il mio senso personale di rivolta nei confronti delle regole e di un sistema che mi ha incasellato nel modo sbagliato per troppo tempo. Il gesto di strappare quindi mi appare come una decisione netta e categorica su me stessa: prendo un’immagine eccezionalmente precisa dal punto di vista tecnico e compositivo per stravolgerla ricostruendola completamente, dandole un senso tutto nuovo. Le opere che produco sono eccezionalmente uniche, ognuna con la sua individualità e unicità, nonostante magari alla base della realizzazione ci sia sempre la stessa immagine riproposta. Le mie opere vogliono “urlare” in maniera categorica che non esistono sentieri prestabiliti, né confini netti che definiscano chi siamo e cosa saremo. Siamo tutti una tela in perpetua evoluzione, fatta di livelli e strati multipli in cui spesso ci si trova confusi, incerti e senza speranze. Tuttavia, è proprio dalla reazione a questo senso di mancanza che nascono bellezza e unicità in ognuno di noi. Le mie creazioni vogliono trasmettere il senso di coerenza nell’accettazione che la vita è un intricato sistema di contorni e bordi sfumati quasi invisibili dove a volte si scruta qualcosa di netto e chiaro, altre volte si finisce dentro sfumature e nebbie. Vivere sta nel mezzo, nel gesto creativo, e non significa perseguire bordi tratteggiati prestabiliti da altri, bensì prendere atto che è nostro diritto strappare come più ci piace, oppure scegliere di non strappare affatto. Questo è il nostro potere.