Intervista all’artista Ricardo Aleodor Venturi

Ricardo Aleodor Venturi ha recentemente preso parte a Bottega ‘500, una mostra d’arte contemporanea organizzata dallo studio di consulenza Tivarnella Art Consulting, in collaborazione con 1758 Venice Art Studio e Associazione Il Sestante, presso la Blue Gallery di Manhattan, New York. Perla del panorama artistico emergente italiano, Venturi si è laureato ad Urbino presso una delle più antiche e prestigiose accademie al mondo. Vincitore di numerosi premi e festival internazionali, le sue opere sono collezionate a Venezia, Firenze, Milano e New York. La sua innata abilità di travalicare differenti discipline costituisce il segreto della sua sperimentazione artistica fresca e originale. L’eccezionale tecnica pittorica incontra materiali innovativi, dando vita a gemme pittoriche connesse dalla poetica sottile guidata dall’impegno sociale.


Che cosa l’ha spinta ad intraprendere un percorso creativo? Da quanto tempo l’accompagna il suo interesse per l’arte?

Non so se si possa parlare di “spinta”, ma forse più di una propensione personale o l’esigenza di uno stare in un preciso respiro. Fin da quando ho memoria il mio tempo è rivolto all’arte e ora sto solo cercando di ricordare i primi periodi di vita perché credo siano stati i più fertili e spontanei. Proprio negli esordi delle prime esperienze possiamo ritrovare la nostra natura.

Ci sono aspetti della sua ricerca artistica che derivano dalle sue origini e tradizioni culturali?


Assolutamente. Penso che nessun artista possa dire il contrario. Il contesto è la cornice su cui si muove la nostra ricerca, ogni persona in generale è toccata in qualche modo dal luogo in cui è nata e vissuta e ne porterà sempre delle tracce. Nella sincerità e consapevolezza di questa constatazione può nascere il lavoro dell’artista. Nel mio caso il vivere nelle Marche, tra le montagne, le colline e il mare, quindi conoscendo visivamente la vertigine e l’orizzontalità della linea come le sue curve, mi ha permesso di acquisire un bagaglio visivo ricco e variegato. Proprio per questo la mia ricerca è mutata spesso, in continua corsa verso un paesaggio nuovo, forme non ancora conosciute. Sono affamato di oggetti e pensieri e questo lo devo anche a una parte di me meno conosciuta, ossia le origini rumene di mia madre. Come in lei anche in me risiede l’esigenza di raccogliere, collezionare, accumulare. L’utopia di salvare ogni oggetto donandogli una seconda vita.

Quali influenze e studi artistici l’hanno guidata nella creazione del suo stile personale? Si sente affine a qualche movimento artistico in particolare?


Rispetto a questo vivo una dicotomia. Sono stato sempre affascinato dal concetto di avanguardie, dove più artisti uniscono le forze per spingere un’idea più in là di quanto da soli sarebbero riusciti a fare. Forse oggi, in un modo diverso, bisognerebbe tornare ad aiutarsi, però in tutta franchezza, paradossalmente, gli artisti che maggiormente mi hanno influenzato non hanno mai aderito a nessuna corrente. Nell’arte moderna sicuramente Chaïm Soutine per la pittura e Constantin Brancusi per la scultura, mentre nel contemporaneo Francis Alÿs. Vorrei anche citare Gino de Dominicis per il concetto di tempo e Carlo Crivelli per la commozione della sua linea, anche se questi ultimi due artisti appartengono a mondi completamente diversi, legati forse solo dall’esigenza di rappresentare se stessi e il proprio pensiero e da un altro fattore importante, il luogo: le Marche.

Quale ruolo attribuisce alla figura dell’artista nell’ambito sociale?

Ricordo di aver letto un libro di pedagogia in cui c’era scritta una frase di Marshall McLuhan che mi colpì molto: “Gli artisti sono l’antenna della società“. Penso che il ruolo dell’artista non sia dare risposte, ma porre le domande giuste. Io per farlo ricorro alla figura del bambino, all’inesauribile esigenza di scavare sempre più a fondo e porre una mitragliata di domande finché non si giunge a situazioni in cui non si hanno risposte. In questa dimensione l’artista può ancora rivelare lo spirito delle cose, il loro vero volto.

Come prende vita un suo progetto?

In modo semplice e spontaneo: da delle incongruenze. Un elemento che non dovrebbe trovarsi lì, tipo un telecomando in spiaggia, oppure dallo stupore, ad esempio l’unirsi naturalmente di due elementi opposti come una conchiglia e un sasso (“Conchiglio”). La singola scelta di un elemento semplice apre ad infinite narrazioni. Spesso il mondo contemporaneo si perde nel vacuo complesso, nella ricchezza degli oggetti, per me occorre ripartire da un unico soggetto. Ritrovare il protagonista tra le migliaia di comparse che ci presenta il mondo. Avere il coraggio di ricercare e di non aggrapparsi ad un tutto solo perché è difficile cercare l’attore principale. Recuperare un cuore che pulsa, apprezzare la qualità di un attimo più che la sua moltitudine.

Qual è il rapporto che si instaura tra l’elemento materico e la sua opera all’interno della sua realizzazione artistica?

Un rapporto di conflitto e coincidenza. Ossia la materia è sempre stata una questione lastricata e tortuosa. Possiede un peso, un’ombra, quindi un volume e deve dialogare con l’immagine, funzionare anche nella sua bidimensionalità. La materia presa singolarmente possiede un respiro proprio, è scultura, ma nella pittura deve respirare all’unisono con l’immagine. L’opera vive e si realizza nel far coincidere questi due rapporti.
Se la materia si dirige da una parte e l’immagine dall’altra, senza esserne consapevoli si produce un tentativo, non un lavoro. Si possono fare lavori brutti e intenderli come opere, ma bisogna essere consapevoli di questo dialogo mancato. Quando tutto, supporto, materia e immagine coincidono emerge l’essenza, il palpito di un pensiero e quindi il lavoro.

A che progetto sta lavorando attualmente?


Sto lavorando con una scuola media statale prima in Europa e terza nel mondo su riciclo e sostenibilità, mi sto aprendo al dialogo con architetti e aziende specializzate, progettando lavori monumentali, ossia che raccolgano sempre più spazio che mi permettano di conoscere più profondamente i materiali con cui lavoro e che includano sempre più spettatori. Sto ricercando un confronto con studenti e con il mondo sociale e comunitario. Creo sempre più difficoltà al mio lavoro, ma trovo che tra lo spostare uno scoglio di una tonnellata dal mare ad un parco e il dipingere un quadro a olio su cartavetrata, non ci sia alcuna differenza. Ricerco difficoltà per spingere il mio lavoro sempre più in là e nel medesimo tempo concretizzo alcune consapevolezze.
Non credo sia il singolo progetto in questo frangente a spiegare il mio lavoro, ma l’esigenza di andare sempre oltre una metaforica scogliera.

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